martedì 16 dicembre 2014

#province Per favore non chiamateli "tagli" #riforma #tasse #disastro

Per favore, non chiamateli “tagli”. Anche su Il Fatto Quotidiano, giornale per solito molto informato in temi economici, con l’articolo a firma di Carlo Tecce e Stefano Feltri del 16 dicembre (Province, 20.000 dipendenti che faranno salire i costi) 2014 si legge: “Con il mancato trasferimento di 3 miliardi di euro nel prossimo triennio, le Province erano destinate a scomparire dai bilanci pubblici”.
La vicenda delle province assume toni sempre più grotteschi, non solo perché è un caos epocale, ma soprattutto perché né viene compresa, né viene correttamente raccontata.
Feltri e Tecce evidentemente ignorano, cosa piuttosto clamorosa e grave, che lo Stato non ha proprio più nulla da tagliare o da non “trasferire” alle province, per una ragione molto semplice: i trasferimenti alle province, che confluivano nel “fondo sperimentale di riequilibrio” sono stati del tutto cancellati nel 2012 dalle manovre Monti.
Tutti continuano a parlare di “tagli” alle province di 1 miliardo nel 2015, 2 miliardi nel 2016 e 3 miliardi nel 2017, previsti dalla legge di stabilità. Ma è un’indicazione completamente sbagliata.
In realtà la legge di stabilità impone alle province di sostenere una nuova forma di spesa, appunto per un importo complessivo di 1, 2 e 3 miliardi tra il 2015 e il 2016 (che si aggiungono a precedenti tagli per circa 2 miliardi operati tra il 2011 e il 2013, con altri 300 milioni di maggiore spesa a giugno 2014, per effetto del d.l. 66/2014, che ha inaugurato il sistema delle maggiori spese).
La legge di stabilità non taglia entrate alle province, obbligandole simmetricamente ad una minore spesa. Al contrario, impone l’obbligo per ogni provincia di destinare parte rilevantissima della propria spesa corrente al bilancio dello Stato, a detrimento delle spese per servizi. In sostanza, sarà lo Stato a decidere come spendere, a regime, i 3 miliardi che le province sono obbligate a versargli.
La dimostrazione di ciò, sta in due circostanze. La prima: la spesa pubblica, per effetto dell’intervento sulle province non diminuisce, ma, al contrario, aumenta. La seconda: ci si dovrebbe aspettare una riduzione delle imposte concatenata ai “tagli”. Ma, proprio perché la legge di stabilità non prevede affatto tagli, ma pagamenti che le province sono obbligate a rivolgere allo Stato, non si ha alcuna diminuzione delle imposte e tasse che finanziano le province.
Si arriva, dunque, al paradosso che le province, nonostante la legge di stabilità ne devasti scopo, funzioni ed organizzazione, dovranno mantenere intatto il loro volume di entrate, di circa 10 miliardi, ma, nel 2015 dovranno dare allo stato 1 di quei miliardi; nel 2016 2 di quei miliardi, per arrivare a regime nel 2017, quando dovranno pagare allo Stato 3,5 miliardi ricavati dalle entrate proprie.
Infatti, sia il d.l. 66/2014, sia la legge di stabilità prevedono che, laddove qualche provincia sia riottosa a trasferire allo Stato la spesa indicata sopra, l’Agenzia delle entrate invece di destinare alle province le entrate derivanti dall’imposta provinciale sulle assicurazioni RC auto (una delle principali fonti di entrata tributaria delle province), la versi allo Stato.
Il che, impedisce, dunque, di ridurre le tasse riscosse dalle province, le quali costituiscono la garanzia che nel bilancio dello Stato confluiscano davvero i miliardi previsti dalla legge.
Alla fine del percorso, dunque, la manovra sulle province non apporta alcun beneficio economico o finanziario per i cittadini. Essi, infatti, dovranno continuare a pagare le stesse tasse di prima alle province, senza, per altro, poter fare nemmeno più affidamento che tali enti, utilizzando le entrate connesse, eroghino i servizi, dal momento che oltre un terzo delle entrate provinciali serviranno per ingrassare il bilancio dello Stato. Che deciderà di spendere risorse acquisite dalle province, per propri fini, ovviamente del tutto diversi dalle esigenze dei territori di “area vasta”.

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