giovedì 1 maggio 2014

#riforma #PA Analisi-risposta alla lettera di #Renzi e #Madia

Egregio Onorevole Eccellenza Presidente del Consiglio dei Ministri,

 

sono onorato di ricevere questa Sua gentile missiva, con la quale illustra i termini generali di una riforma della Pubblica Amministrazione che intende porre in essere entro il 13 giugno.

Sono grato per questo coinvolgimento nel processo di partecipazione e, dunque, non mi sottraggo dalla possibilità offertami, pur essendo totalmente convinto che ben tale forma di partecipazione risulti più forma che sostanza e che molto difficilmente osservazioni, critiche e proposte verranno accolte.

Nel commentare e rispondere alla Sua missiva, preannuncio di non sentirmi parte di una “rivoluzione” e non mi accodo a chi vuol dipingere in tal modo le linee della riforma da Ella proposte. Infatti, molte di queste sono un deja vu o, comunque, una raccolta fior da fiore di una serie di proposte espresse negli ultimi 20 anni un po’ da tutte le forze politiche, dalla Lega a Sel.

Allo stesso modo, sono pienamente convinto, se la S.V. me lo concede, che lo slittamento dell’approvazione del disegno di legge o decreto legge avverrà dopo le elezioni europee allo scopo di evitare al partito del quale Ella è segretario una non irrilevante emorragia dei voti che storicamente “pesca” proprio dal mondo della PA. Che, se vedesse “esplosi” i titoli della riforma in dettagli operativi, probabilmente coglierebbe appieno che non si tratta di “rivoluzione”, ma di una riforma in parte populista, in parte solo apparente, in parte ancora funzionale ad una verticalizzazione del potere, sempre più concentrato in poche mani di pochi decisori, mentre si lascia credere che gli interventi riformisti di questi mesi abbiano lo scopo di aumentare la democrazia e la partecipazione. Segno che in Italia, utilizzando sapientemente i media, è possibile davvero far credere che il bianco sia nero e che il Sole giri intorno alla Terra.

Allo scopo di analizzare ed in parte rispondere al cortese Suo invito, passo ad analizzare punto per punto i “titoli” della proposta.

1) abrogazione dell’istituto del trattenimento in servizio, sono oltre 10.000 posti in più per giovani nella p.a., a costo zero

Cogliere cosa abbia di rivoluzionario abolire il trattenimento in servizio risulta davvero complicato, soprattutto se si vuol motivare detta abolizione con l’immissione di “giovani” nella pubblica amministrazione.

Ragioniamo un po’. I dipendenti pubblici di ruolo sono complessivamente, arrotondando, 3,1 milioni. 10.000 “nuovi” dipendenti corrispondono allo 0,32% del totale. Siamo davvero sicuri che in questo modo si “rivoluzioni” l’apparato, ringiovanendolo?

Ma, in secondo luogo, cosa fa essere tanto certi che i 10.000 posti possano essere per giovani? Dietro all’idea vi è, forse, la certezza dell’abolizione dell’articolo 97, comma 3, della Costituzione che obbliga ad assumere per concorso?

Se così non fosse, nulla garantisce che i 10.000 nuovi assunti siano “giovani”, se come tali dobbiamo intendere le forze lavoro comprese tra i 18 e i 29 anni, stando alle indicazioni europee. Nulla, infatti, dovrebbe vietare a cittadini di età anche maggiore di partecipare ai concorsi e, ovviamente, di vincerli ed ottenere l’assunzione.

Infine, senza una revisione del blocco del turn-over, probabilmente entro breve tempo, in perfetto stile gattopardesco, il trattenimento in servizio verrà reintrodotto, perché le professionalità si costruiscono col tempo e l’esperienza. I blocchi alle assunzioni di 10 anni hanno creato un vuoto, che sarà difficile colmare, sicchè sarà evidente che i “nuovi”, senza i “vecchi” a fare da guida e ad assicurare all’amministrazione la loro capacità e conoscenza, non potranno dare valore aggiunto.

Sicchè, il trattenimento in servizio continuerà ad essere come la carta rossa in mezzo alle due nere: apparirà e scomparirà, di legge in legge, come da anni ormai avviene.

2) modifica dell'istituto della mobilità volontaria e obbligatoria

Senza conoscere come l’istituto della mobilità sarà modificato, è ovviamente difficile pronunciarsi in merito. Si possono solo fare osservazioni ed auspici.

Anche in questo caso, di rivoluzionario non c’è assolutamente nulla, perché l’istituto è pienamente vigente, dal lato della mobilità volontaria. La mobilità obbligatoria esiste a sua volta, ma solo come strumento di politica attiva del lavoro, per evitare situazioni di esuberi e licenziamenti.

La mobilità volontaria doveva essere lo strumento principale per rimediare ad uno dei veri grandi problemi dell’amministrazione, che non è l’eccessiva quantità di dipendenti pubblici (l’Italia ne ha molti meno di Gran Bretagna e Francia, pochi meno della Germania grazie ad un computo dei lavoratori della sanità tedeschi un po’ particolare, più della Spagna, che ha 46 milioni di abitanti, con incidenza della spesa sul Pil e sui singoli cittadini in media Ue), ma la loro cattiva distribuzione territoriale e tra enti.

Per questo, si era previsto che le amministrazioni prima di indire i concorsi, dovessero attivare la mobilità volontaria, a pena di nullità delle assunzioni.

Peccato che questa ottima idea non abbia funzionato. La ragione, però, di tale fallimento è evidente: non esiste un controllo sui concorsi.

Nessuno, cioè, verifica se esista un rapporto di 1/1 tra avvisi di mobilità e bandi di concorso, né verifica perché eventuali procedure di mobilità si chiudano senza il trasferimento di un dipendente da un ente all’altro.

E’ davvero singolare che 56.000 dipendenti delle province siano “congelati” all’interno di enti che si vorrebbero alleggerire e far sparire, senza che nel “mitico” web vi sia la minima traccia di avvisi di mobilità. Eppure, si tratta di un bacino di dipendenti che potrebbe andare a rafforzare non poco amministrazioni storicamente carenti o bisognevoli, come le cancellerie dei tribunali, l’Agenzia delle entrate, i servizi ispettivi del lavoro.

Dunque, quel che ci sarebbe da auspicare non è tanto il tornare sulla disciplina dell’istituto della mobilità, bensì nell’introduzione di sistemi di controllo che impongano alle amministrazioni di non dribblare abilmente l’obbligo di utilizzare la mobilità.

3) introduzione dell’esonero dal servizio

Sarebbe più corretto parlare di “re-introduzione” dell’esonero dal servizio, istituto che in Italia vene appunto già introdotto col d.l. 112/2008, cioè sei anni fa (sempre a proposito della rivoluzione gattopardesca).

In effetti, che nel 2008 fosse stato introdotto l’esonero dal servizio non se n’è accorto nessuno. Si è trattato di uno degli istituti più fallimentari ed inutilizzati della storia. C’è da dubitare molto che la sua “riscoperta” possa portare a risultati diversi.

4) agevolazione del part-time

L’italia è il Paese dei corsi e ricorsi vichiani e del Gattopardo. Nel 1996 la legge finanziaria per il 1997 introdusse agevolazioni del part-time così ampie, da configurarlo come un vero e proprio diritto soggettivo: per ottenere il part-time, bastava chiedere e lo si doveva ottenere necessariamente.

Fu una misura per far risparmiare denari ingenti all’amministrazione. Che produsse una quantità davvero gigantesca di lavoratori a part time.

Tanto che, a distanza di 13 anni, con la legge 183/2010 il part-time nella PA è stato profondamente rivisto ed è stato nuovamente riportato nella piena discrezionalità del datore di lavoro concerdelo o negarlo. Il tutto fu preceduto addirittura dalla possibilità di rivedere i part-time nel frattempo concessi.

Parlare, ora, di “agevolazione del part-time” di rivoluzionario non ha nulla, se per rivoluzione si intende una rottura insanabile col passato. Al contrario, è un puro e semplice ritorno al passato. Un modo per tentare di ridurre i costi dell’amministrazione, senza pagare il dazio di dover ammettere che la riforma alla quale si pensa ha anche lo scopo di tagliare i costi ed è ispirata alla spending review, sebbene nella conferenza stampa di presentazione lo si sia negato.

5) applicazione rigorosa delle norme sui limiti ai compensi che un singolo può percepire dalla pubblica amministrazione, compreso il cumulo con il reddito da pensione

Cosa ha di rivoluzionario una line di “riforma” che mira a far applicare rigorosamente delle norme? Ma, perché: le norme non debbono essere applicate “rigorosamente”? Cosa sono, altrimenti? Un consiglio, un invito, uno scherzo, un’opinione?

Il punto 5 della lettera è davvero singolare. Sarebbe il caso di evidenziare quali amministrazioni non applichino rigorosamente le norme, per intervenire e sanzionarle senza alcun indugio. Le norme già ci sono. Si ripropone, dunque, uno dei veri grandi problemi: la sciagurata e destabilizzante eliminazione dei controlli preventivi, voluta dalle riforme-Bassanini, così di pessima qualità da costringere ogni 2-3 anni il Governo di turno a pensare a riforme “rivoluzionarie” della PA.

6) possibilità di affidare mansioni assimilabili quale alternativa opzionale per il lavoratore in esubero

La possibilità già esiste, dal momento che tutte le mansioni tra loro equivalenti sono esigibili. E’ dalla riforma della PA del 1998 (che, ovviamente, all’epoca fu considerata “rivoluzionaria) che esiste la piena esigibilità delle mansioni equivalenti.

Il punto 6, dunque, non propone nessuna novità. Ha solo il pregio di evidenziare che le mansioni equivalenti possono essere utilizzate anche per scongiurare la mobilità.

Nella conferenza stampa, però, è emerso che tali mansioni “assimilabili” potrebbero essere “inferiori”.

Ecco, in questo caso non è la stessa cosa. Una mansione “assimilabile” non è, ovviamente, “inferiore”.

Sarebbe il caso che il Governo si mettesse d’accordo con se stesso e stabilisse in modo chiaro dove si voglia arrivare.

Sembra evidente che un demansionamento possa essere legittimamente accettabile solo laddove il lavoratore in esubero non accetti, ad esempio, una mobilità obbligatoria verso un altro ente o laddove non si verifichino altro tipo di condizioni per la sua ricollocazione.

7) semplificazione e maggiore flessibilità delle regole sul turn over fermo restando il vincolo sulle risorse per tutte le amministrazioni

Il punto 7 è talmente generico da risultare incommentabile. Il turn over può essere semplificato quanto si vuole, ma se l’effetto che si vuole ottenere è il ringiovanimento della PA, occorre solo rimettere totalmente in discussione il blocco. Ma, è ovvio che non vi sono le condizioni.

8) riduzione del 50% del monte ore dei permessi sindacali nel pubblico impiego

Anche quello della riduzione del monte ore dei permessi sindacali è un “mantra” ripetitivo ad ogni riforma “rivoluzionaria”.

Ci sarebbe anche da capire esattamente cosa il Governo voglia. Riduciamo i permessi sindacali per recuperare forze lavoro? Benissimo. Ma, allora, perché agevolare il part-time? Forse, si vuole dare un segnale di forza ai sindacati.

Sta di fatto, che il vero problema non sono i permessi per l’esercizio delle prerogative dei delegati sindacali, quanto, semmai, i distacchi dei dipendenti pubblici che, di fatto, cessano proprio di lavorare, impegnandosi a tempo pieno nel sindacato. Questi, più che i permessi legati all’esercizio di diritti sindacali, dovrebbero essere al centro dell’attenzione.

9) introduzione del ruolo unico della dirigenza

Non vorremmo essere ripetitivi, ma l’italia è il Paese dei corsi e ricorsi vichiani e del Gattopardo.

Il ruolo unico della dirigenza esisteva nella prima riforma della PA del 1993 (ovviamente, “rivoluzionaria”). Ma, poi, senza che davvero abbia mai funzionato, fu eliminato.

Dunque, anche in questo caso si tratterebbe di una reintroduzione, non certo di una nuova introduzione.

E’ una misura corretta e condivisibile, perché consente a tutte le amministrazioni dello Stato di attingere ad un bacino unico, non distinto per ruoli impermeabili di ciascuna amministrazione, dal quale “pescare” i dirigenti cui affidare gli incarichi. Consente, dunque, mobilità interna, apertura ad esperienze e carriere nuove, sviluppo della professionalità.

Ciò, però, a condizione che non lo si trasformi, come pure sembra di aver percepito da anticipazioni e dalla conferenza stampa, in una sorta di albo aperto, al quale accedono anche i dirigenti esterni non selezionati per concorso.

Allo scopo di agevolare la mobilità tra dirigenti, sarebbe opportuno che al ruolo unico, che è solo della dirigenza statale, si affiancasse un elenco di tutti i dirigenti in servizio, consentendo espressamente anche la possibilità per le amministrazioni, comprese quelle locali, di attingere ai due bacini, per estendere ulteriormente la mobilità. Operazione, questa, che sarebbe resa più facile dall’abolizione delle fasce, prevista dal seguente punto 10.

10) abolizione delle fasce per la dirigenza, carriera basata su incarichi a termine

Il punto 10, in realtà contiene due distinti punti. Il primo riguarda la positiva abolizione delle fasce dirigenziali, inventate per consolidare e chiudere in un recinto i dirigenti “apicali”, quelli ai vertici massimi delle amministrazioni, destinatari dei famosi stipendi che con il recente d.l. 66/2014 si è inteso ricondurre entro il tetto dell’indennità spettante al Presidente della Repubblica. L’eliminazione delle fasce rende più aperta e “contendibile” la carriera dirigenziale e potrebbe eliminare nicchie di potere, nelle quali, per altro, si registra spesso una commistione fortissima tra politica e dirigenza.

Il secondo punto riguarda la carriera basata su incarichi a termine. Ebbene, letto così, da solo, questo secondo elemento del punto 10 non avrebbe alcun senso, in quanto è già così: tutti gli incarichi dirigenziali sono a termine.

L’elemento innovativo, allora, lo si coglie leggendo questa seconda parte del punto 10, congiuntamente al punto 11.

11) possibilità di licenziamento per il dirigente che rimane privo di incarico, oltre un termine

La novità non sta nell’introduzione del “termine” all’incarico, quanto nella possibilità di licenziare il dirigente che resti privo di incarico per un certo tempo.

E’ una vera e propria precarizzazione della dirigenza, quella cui pensa il Governo, totalmente contraria all’assetto costituzionale imposto dagli articoli 97 e 98, ed alle letture che del rapporto di lavoro e della funzione diriegenziale ha dato la Corte costituzionale con la giurisprudenza maturata a partire dalla sentenza 103/2007.

L’intento è chiarissimo: non potendo trasformare all’improvviso il rapporto di lavoro dei dirigenti da lavoro a tempo indeterminato a lavoro a tempo determinato, il Governo fa uscire dal cilindro un coniglio di più che dubbia legittimità, anche se già molti applaudono al gioco di prestigio.

In sostanza, il rapporto di lavoro resta a tempo indeterminato, ma si introduce una clausola di recesso automatico da parte del datore, legata alla circostanza che lo stesso datore non attribuisce al dirigente alcun incarico.

Laddove questo fosse frutto di una valutazione negativa o di violazioni a direttive o indicazioni al dirigente, la risoluzione del rapporto di lavoro avrebbe un evidente senso: non a caso, queste sono già cause previste dall’articolo 21 del d.lgs 165/2001 per licenziare i dirigenti.

Il problema è che le valutazioni dei dirigenti, spessissimo e soprattutto nelle amministrazioni dello Stato non si fanno.

Dunque, un elemento fondamentale e importantissimo per valutare le capacità dei dirigenti e permettere la loro stessa prosecuzione del lavoro viene pretermesso, per espressa incapacità e mancata volontà della politica di effettuare una seria valutazione.

La lettera, nel seguente punto 12, torna con un altro “mantra” quello del rilancio della “valutazione”. Ma, il punto 11 in commento mette in conto, evidentemente, che la valutazione sarà sempre e solo seria a parole, ma mai nei fatti. Lasciando così alla politica un’arma impropria per condizionare la dirigenza: non la valutazione, che è cosa giusta e doverosa, ma il “potere del cinese”. Cioè, mettersi sulla riva del fiume e aspettare che passi il cadavere del “dirigente”. In altre parole, quel ministro che non abbia in particolare simpatia il dirigente non dovrà nemmeno sforzarsi di evidenziare ragioni per il licenziamento dovute al defatigante processo valutativo. Potrà limitarsi a non attribuirgli alcun incarico esattamente per quel lasso di tempo necessario a farlo licenziare.

Sventolando questo potere speciale, ogni organo politico potrà così ottenere da ciascun dirigente il giuramento di fedeltà sul modello del direttore generale dell’Usl di Benevento all’On. Di Girolamo: “io la nomina da te l'ho avuta e a te rispondo, ed è giusto che ci sia un riscontro”.

Uno spoil system mascherato, una precarizzazione finalizzata a fare sì che la dirigenza non svolga con autonomia il proprio ruolo, ma si mostri strumento della politica.

La cosa, per altro, paradossale di un simile sistema di concepire la riforma della dirigenza non poggia solo nella clamorosa violazione dei principi costituzionali e nella legittimazione del clientelismo nello stile dell’esempio riportato sopra, ma anche nella circostanza che i dirigenti di ruolo, quelli che hanno fatto i concorsi e le selezioni per accedere alla qualifica, si vedrebbero messi a rischio molto più dei dirigenti assunti, senza concorso, in applicazione del tristemente noto articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001.

Il perché è semplice. I dirigenti “a contratto” vengono acquisiti dal mondo di altre professioni: dirigenti del sistema privato, magistrati, avvocati dello Stato, professori universitari e ricercatori. Si tratta, dunque, di soggetti che dispongono di un altro lavoro. Dunque, per loro la chiusura dell’incarico implica semplicemente il rientro nella sede lavorativa propria.

L’articolo 19, comma 6, consente perfino (in maniera totalmente incostituzionale, ma ancora la norma non è stata colpita da censure) di assegnare incarichi dirigenziali a dipendenti dell’amministrazione che incarica il dirigente privi di qualifica dirigenziale. Questi, dunque, se non rinnovati nell’incarico, anche proprio per aver, in ipotesi, mancato i risultati e violato le direttive, potranno comunque tornare a lavorare.

I dirigenti di ruolo, invece, perderebbero il lavoro. Magari, proprio per il fatto che il ministro di turno, invece di attingere al ruolo unico e attribuire l’incarico dirigenziale ad un dirigente che ne sia privo e risulti disponibile, preferirà, invece, acquisire un dirigente dall’esterno.

E’ evidente che questo sistema appare totalmente perverso e finalizzato solo a creare una dirigenza a dir poco succuba della politica. E’ uno dei punti meno costituzionalmente e, si consenta, eticamente accettabili della proposta di riforma.

La piena licenziabilità dei dirigenti, che esiste già, va benissimo, ma non può essere connessa all’esercizio di un diritto potestativo di non assegnare incarichi per un certo lasso di tempo, consentendo allo stesso tempo di assumere, senza concorso, dirigenti a contratto e, comunque, senza una motivazione chiara della mancata assegnazione degli incarichi.

12) valutazione dei risultati fatta seriamente e retribuzione di risultato erogata anche in funzione dell’andamento dell’economia

Anche questo punto appare piuttosto singolare. Al Governo risulta che la valutazione non sia fatta seriamente? Agisca nei riguardi delle amministrazioni che non valutano nel modo corretto. Continuare a ritoccare ogni sei mesi il sistema di valutazione, introducendo organismi nuovi e Authority, come dimostrano i fatti, non serve assolutamente a nulla.

Si pensi al solo sistema degli enti locali. Si tratta di una galassia di circa 8500 enti, presso i quali operano nuclei di valutazione oppure Organismi indipendenti di valutazione, spesso composti da 3 persone, remunerati mediamente 10.000 euro l’anno. Un costo stimabile in 255 milioni di euro, ma ammettiamo che siano solo 150 milioni.

Ebbene, dal Conto annuale del personale, risulta che la spesa per la retribuzione di risultato dell’area dei dipendenti privi di qualifica dirigenziale ammonti, nel 2012, ad euro 516.348.713 i dipendenti privi di qualifica dirigenziale sono 472.040, sicchè si mette in piedi un sistema costosissimo e farraginoso per assegnare in media un “premio” lordo di 1.094 l’anno.

La “serietà” della valutazione implicherebbe anche profondi ragionamenti sul rapporto costi benefici delle attività che si svolgono.

Non si può, poi, fare a meno di evidenziare l’ipocrisia dietro alla volontà di legare il risultato (della sola dirigenza) all’andamento dell’economia del Paese.

Un modo, questo, per scagionare da responsabilità proprio i soggetti che per primi debbono rispondere dell’andamento dell’economia, ovvero i componenti politici del Governo e del Parlamento.

L’andamento dell’economia è in parte connesso alle scelte di politica economica, che sono proprie in via esclusiva del Governo e del legislatore. La possibilità di rilanciare l’occupazione e, dunque, i consumi, è legata al successo (molto dubbio) o meno delle misure contenute nel d.l. 34/2014. Norma integralmente pensata da alcuni ministri e da esponenti della segreteria del partito di maggioranza, rielaborata, adesso, in fase di conversione, in parte dal Parlamento.

L’efficacia della norma, il suo impatto sull’economia sono fattore che dipende in via esclusiva dalle decisioni adottate in sede politica.

La dirigenza ha il compito di supportare gli organi di governo nella pianificazione e, soprattutto, di assicurare con competenza l’attuazione delle norme.

Non ha alcuna incidenza diretta sull’andamento dell’economia, mentre l’ha eccome sul funzionamento degli uffici e dei servizi.

Legare, dunque, il risultato della dirigenza all’andamento dell’economia potrà sembrare un’ottima idea, ma è oggettivamente insensata. Avrebbe solo il pregio di legare il risultato ad elementi certi e non campati in aria, ma dell’andamento complessivo dell’economia risponde solo la politica, nel confronto con gli elettori.

13) abolizione della figura del segretario comunale

Quale possa essere l’impatto positivo, innovativo e rivoluzionario dell’abolizione del segretario comunale è difficile da comprendere.

Chi ha buona memoria, ricorda perfettamente che l’abolizione del segretario comunale è stato per anni un cavallo di battaglia della Lega, che mal tollerava, nei comuni che aveva da poco conquistato, la presenza di una figura di garanzia del rispetto della legalità. Nel 1996, l’anno della manifestazione sul Po, la Lega, dunque, propose un referendum abrogativo, che venne scongiurato con la legge 127/1997, una delle sciagurate leggi-Bassanini, la quale, in sintesi, introdusse l’inutilissima e costosissima figura del “city manager” nominato direttamente a proprio piacimento dai sindaci, e previde per i segretari comunali una forma di spoil system estremamente spinta, alla quale in maniera estremamente chiara si ispira la riforma degli incarichi dirigenziali esaminata prima.

A 18 anni di distanza, si apprende che i governi della “rivoluzione” ispirano al propria azione a idee di 18 anni prima di matrice leghista.

E’ evidente che il “partito dei sindaci”, largamente rappresentato al Governo, considera che ogni forma di controllo, anche ormai blando e indiretto, sulla legittimità dell’azione amministrativa sia un peso.

Mal ne incolse ai segretari comunali il tentativo, sia pur disordinato, di un rilancio della loro figura, abbozzato dall’ultimo Governo Berlusconi e dal Governo Monti. Il primo, con l’eliminazione dell’inutile e costosissima figura del direttore generale nei comuni con popolazione fino ai 100.000 abitanti; il secondo, con la riforma dei controlli interni, tendente a ridare centralità a questa competenza dei segretari comunali, nonché, soprattutto, con la legge 190/2012, nota come legge “anticorruzione”, che considera ex lege il segretario comunale come responsabile anticorruzione e della trasparenza.

Mal ne incolse, perché in qualche comune retto dal Pd nel Nord Italia, qualche segretario ha iniziato a svolgere sul serio queste funzioni. Attirandosi strali, ostracismi e improperi di ogni genere, giungendo fino al licenziamento ed alla proposta appunto di abolire la figura.

Prontamente, si direbbe, accolta. In controtendenza totale ed assoluta con l’impianto a fatica avviato dell’anticorruzione. Ma in linea perfetta con la tesi, piuttosto becera, di chi ritiene che il “peso” della pubblica amministrazione consista nella funzione di chi, segretari comunali e dirigenti, ha il compito di attuare le linee direttive politiche in modo rispondente alle regole. Invece, evidentemente, il bravo “manager” pubblico è quello che oltre a fare l’autodafè stile direttore generale dell’Usl di Benevento, scardina le regole, dica sempre e solo di sì, slalomeggi tra le norme, spesso abbattendo i pali.

14) rendere più rigoroso il sistema di incompatibilità dei magistrati amministrativi

Questa indicazione appare del tutto condivisibile. Anzi, viene da pensare che l’optimum sarebbe prevedere un’incompatibilità totale, assoluta, non negoziabile tra la funzione dei magistrati amministrativi e le funzioni di gestione. Il conflitto di interessi che si genera è titanico e va certamente debellato.

Non basta un modo per rendere “più rigoroso” il sistema dell’incompatibilità. Occorre garantire la terzietà ed estraneità assoluta della magistratura amministrativa dalle funzioni gestionali.

15) conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, asili nido nelle amministrazioni.

Anche questo punto 15 è di difficile commento. C’è solo da condividere l’intento ed attendere le norme attuative. Benissimo gli asili nido nelle amministrazioni e tutte le misure di conciliazione. C’è solo da ricordare che tutto questo avrà dei costi, non indifferenti, di impianto e gestione, ma, si ripete, non si può che concordare.

16) riorganizzazione strategica della ricerca pubblica, aggregando gli oltre 20 enti che svolgono funzioni simili, per dare vita a centri di eccellenza

L’intento non può che considerarsi corretto e condivisibile. Anche qui un appunto solo: benissimo l’aggregazione degli enti, che consente evidentemente razionalizzazioni e risparmi. Ma, la ricerca si potenzia con l’investimento. Se non si vede questa parola, accompagnata da risorse, accanto alla razionalizzazione, rimane tutto una vuota enunciazione.

17) gestione associata dei servizi di supporto per le amministrazioni centrali e locali (ufficio per il personale, per la contabilità, per gli acquisti, ecc.)

In linea di principio, informatica e web consentono di applicare questi intenti, portando ad una razionalizzazione dell’attività.

L’importante è essere consapevoli dei limiti che, comunque, tali strumenti portano con sé. L’ufficio per il personale può centralizzare paghe e rilevazioni. Ma la gestione dei permessi, delle assenze, la materiale organizzazione del lavoro non può farsi solo sul cloud.

Lo stesso vale per la contabilità, soprattutto nella fase di decisione, in quanto la spesa la si impegna nell’ambito degli uffici operativi. Centralizzare tutto a Roma o nei capoluoghi significa creare colli di bottiglia troppo stretti.

In quanto agli acquisti, la strada è segnata già dal d.l. 66/2014. Anche in questo caso è opportuno sapere quali confini rispettare. Bene la centralizzazione della cancelleria e degli arredi. Ma, la vernice e gli utensili che servono agli operai dei cantieri per la manutenzione delle strade non possono essere acquisiti presso lontani centrali di acquisti, che non assicurino una logistica di immediata disponibilità dei materiali.

Si ha la sensazione che chi pensi alla razionalizzazione, necessaria quanto mai, dell’attività dell’amministrazione, dimentichi che la PA non è solo composta da impiegati seduti dietro una scrivania. E’ piena di operai, tecnici, ispettori, assistenti sociali, persone che lavorano tantissimo “fuori”, per le quali il cloud e l’informatica hanno un’utilità non decisiva rispetto al lavoro che fanno. Il tutto andrebbe, dunque, commisurato alla piena consapevolezza dell’estrema diversificazione delle attività e dei servizi svolti.

18) riorganizzazione del sistema delle autorità indipendenti

In Italia si è passati da zero autorità indipendenti a un diluvio di autorità indipendenti. Le quali, spesso, brillano per capacità di analisi e report, ma non dispongono di veri poteri di regolazione e soprattutto sanzione.

Più che di una riorganizzazione delle authority, ci sarebbe bisogno di un loro fortissimo ripensamento. A partire proprio dalla presunta “indipendenza” dei loro vertici, che, essendo nominati dalla politica, così indipendenti proprio né sono, né possono esserlo. Come dimostrano alcuni presidenti di authority, talmente indipendenti da far parte di compagini a supporto di ministri e sottosegretari.

19) soppressione della Commissione di vigilanza sui fondi pensione e attribuzione delle funzioni alla Banca d'Italia

Una delle poche soppressioni accompagnata da subito dall’idea di come trasmettere e a chi le connesse funzioni. Ottimo. Perché è l’esatto contrario di quanto fatto con la riforma delle province.

20) centrale unica per gli acquisti per tutte le forze di polizia

Idea condivisibile. Si ritiene di richiamare quanto considerato in merito al punto 17.

21) abolizione del concerto e dei pareri tra ministeri, un solo rappresentante dello Stato nelle conferenze di servizi, con tempi certi

Ottima idea. Spesso nelle leggi si vede che determinati decreti o regolamenti debbono essere adottati di concerto tra 7 ministeri, previo parere di 12 organismi, seguiti da una consultazione con 25 ulteriori organismi.

Bene eliminare tali incrostazioni. Ma, si pone una domanda, che da qui in poi sarà ricorrente: cosa c’entra con la riforma della PA? Questo riguarda l’esercizio del potere legislativo, non l’attività amministrativa.

22) leggi auto-applicative; decreti attuativi, da emanare entro tempi certi, solo se strettamente necessari

Anche in questo caso: ottimo, ma con la riforma della PA non ha alcuna relazione. Siano Governo e Parlamento a dover rispettare l’ovvio criterio di legiferare con norme complete, senza rinvii ad altri provvedimenti.

23) controllo della Ragioneria generale dello Stato solo sui profili di spesa

Questa previsione fa abbastanza il paio con l’intento di eliminare la figura dei segretari comunali.

Si è più volte sottolineato che uno dei problemi maggiori della pubblica amministrazione deriva dall’eliminazione dei controlli.

L’attività amministrativa non si muove entro un mercato concorrenziale, nel quale la selezione del più efficiente, competitivo o semplicemente del più bello o tecnologico la fa la clientela. Per questa ragione il mantra dell’assimilazione della pubblica amministrazione alle aziende private è semplicemente fuori bersaglio.

L’attività amministrativa è per lo più svolta in modo monopolistico (salve alcune funzioni pubbliche rese in regime di autorizzazione o accreditamento da soggetti anche privati). Il cittadino non può scegliere quale carta di identità ottenere tra un comune e l’altro, in relazione alla qualità della plastica o della carta, o in base ad una promozione.

Il cittadino ha diritto di pretendere che la carta di identità, come ogni servizio, sia rilasciato in modo efficiente, economico, senza sovracosti dovuti a corruzione, senza favoritismi clientelari, con la possibilità di conoscere i flussi procedimentali e i tempi, anche per confrontarli con altre amministrazioni e chiedere conto e ragione di scostamenti.

Ma, allo scopo di evitare corruzioni, ritardi, inefficienze e disparità, è necessario che siano operanti strumenti di prevenzione, che possano supplire alla mancata selezione del mercato, con modalità finalizzate ad assicurare qualità dell’azione amministrativa, che, nel caso di specie, è, non può non essere, anche rispetto delle leggi. Il quale è il baluardo principale contro i favoritismi connessi all’appartenenza a conventicole.

La Ragioneria svolge un controllo anche di regolarità amministrativa. Limitare il suo operato solo ai profili di spesa significa erodere ulteriormente l’autocontrollo preventivo dell’attività amministrativa.

Le conseguenze di un ventennio di eliminazione di controlli preventivi sono sotto gli occhi di tutti. Eppure, si vuole proseguire su questa strada.

24) divieto di sospendere il procedimento amministrativo e di chiedere pareri facoltativi salvo casi gravi, sanzioni per i funzionari che lo violano

E’ esattamente quanto prevede già la legge 241/1990. Si tratterebbe solo di applicare la norma e, soprattutto, di controllare che sia applicata.

25) censimento di tutti gli enti pubblici

In effetti, è davvero assurdo che non si sappia con precisione quanti siano gli enti pubblici. L’idea è ottima. Come si potrebbe attuare? Facendo iscrivere gli enti pubblici alla Camera di commercio? Ehm.. no, meglio evitare, vedremo di seguito perché.

26) una sola scuola nazionale dell’Amministrazione

Scuole nazionali di amministrazione ve ne sono, oggi, 5. In effetti, nessuna può dirsi competitiva rispetto alla mitica Ena francese.

Un corretto segnale di razionalizzazione, quello del punto 26, che potrebbe ottenere anche l’obiettivo del potenziamento della capacità formativa, oltre a quello della razionalizzazione della spesa.

27) accorpamento di Aci, Pra e Motorizzazione civile

E’ quanto gli automobilisti auspicano da tempo. Tre enti che spezzettano una funzione unica possono certamente essere accorpati.

28) riorganizzazione della presenza dello Stato sul territorio (es. ragionerie provinciali e sedi regionali Istat) e riduzione delle Prefetture a non più di 40 (nei capoluoghi di regione e nelle zone più strategiche per la criminalità organizzata)

Se ne parla da sempre. L’idea non può che essere condivisa, rimanendo ferma solo la curiosità su come verrà concretamente attuata.

Una sola piccola notazione. Nei mesi precedenti si affermava che la riduzione del numero delle province era fondamentale per poter, poi, simmetricamente riorganizzare la presenza dello Stato in periferia. Non era vero. Lo Stato può riorganizzare il proprio assetto in periferia come e quando vuole, perché nulla obbliga a tenere in ciascuna provincia determinati uffici, data la totale autonomia tra l’ente Stato e l’ente provincia.

La prova ultima è data dall’intento di riforma della PA, che persegue appunto la riduzione degli uffici periferici statali, nonostante le province non siano state né abolite, né ridotte di numero dalla legge 56/2014.

29) eliminazione dell'obbligo di iscrizione alle camere di commercio

In sé e per sé, l’obbligo di iscrizione alle camere di commercio può non essere né rilevante, né importante. Purchè ci si intenda sull’argomento.

Se si parla dell’iscrizione al sistema camerale, con i versamenti finanziari connessi, è un conto. Diverso è il tema dell’iscrizione al registro delle imprese, fondamentale per la pubblicità dell’attività delle imprese e la regolazione dei rapporti di diritto comune tra privati.

E’ auspicabile che il punto 29 si riferisca all’iscrizione alle CCIAA nella prima accezione.

30) accorpamento delle sovrintendenze e gestione manageriale dei poli museali

L’accorpamento delle sovrintendenze dovrebbe essere trattato con le pinze, in un Paese come l’Italia, così pieno di beni culturali.

Il tema vero è investire sui beni, potenziando le sovrintendenze con uomini, risorse e tecnici. Trattandosi di attività strettamente connesse ai siti ed ai territori, l’accorpamento rischia di rivelarsi un boomerang.

Difficile da commentare il tema della gestione dei poli museali. Specie, quando accanto al sostantivo “gestione” si pone accanto l’aggettivo “manageriale”, abusato, abusatissimo e utilizzato troppo spesso a sproposito e senza costrutto.

31) razionalizzazione delle autorità portuali

Recenti inchieste hanno messo in luce come in Italia esistano autorità portuali senza porti, con una frammentazione di funzioni e risorse rilevanti.

L’idea non può che essere condivisa.

32) modifica del codice degli appalti pubblici

Il codice degli appalti pubblici possiamo affermare che semplicemente non esista. Da quando è stato emanato nel 2006 non ha mai avuto tregua.

Modifiche ne ha subite a centinaia. Per altro, modifiche saranno necessarie entro pochi mesi, per adeguarlo alle recenti direttive europee sugli appalti.

Nel caso degli appalti pubblici, la vera “rivoluzione” consisterebbe nel tenere stabile ed assestata la disciplina, così da dare un minimo di certezze alle aziende ed alle amministrazioni appaltanti.

33) inasprimento delle sanzioni, nelle controversie amministrative, a carico dei ricorrenti e degli avvocati per le liti temerarie

Corretto, per evitare l’accumulo di cause amministrative. Ma, anche qui: cosa c’entra con la riforma della PA?

34) modifica alla disciplina della sospensione cautelare nel processo amministrativo, udienza di merito entro 30 giorni in caso di sospensione cautelare negli appalti pubblici, condanna automatica alle spese nel giudizio cautelare se il ricorso non è accolto

Idea condivisibile, per ridurre tempi e margini di incertezza nel caso di sospensione (per altro, le regole recentemente introdotte nel codice del processo amministrativo già prevedono queste disposizioni). Tuttavia, cosa c’entra la normativa sul processo amministrativo, con la PA?

35) riforma delle funzioni e degli onorari dell’Avvocatura generale dello Stato

Sembra si sia scoperto da poco, ma invece la cosa è nota da sempre, che gli avvocati dello Stato guadagnano cifre rilevanti.

E’ una funzione estremamente importante e delicata quella dell’Avvocatura. Ricondurre gli onorari entro limiti è un segnale forse rilevante, che non cambia comunque le sorti della spesa pubblica.

36) riduzione delle aziende municipalizzate

L’indicazione è già contenuta nel d.l. 66/2014. Il tema è verificare come si giunge a questo risultato. L’idea della privatizzazione mediante cessione al mercato è imperante. Può rivelarsi corretta ed auspicabile, ma funziona almeno a due condizioni. Che il privato assicuri comunque i livelli minimi essenziali di servizio; che il ramo di attività delle municipalizzate sia effettivamente appetibile per il mercato.

Molte delle aziende e società locali, invece, svolgono attività che non hanno particolare attrattività nel mercato. Il problema, dunque, consisterà nel capire come eventualmente svolgere le funzioni ed i servizi che non saranno effettivamente privatizzabili. E’ un tema così intricato, che si trascina da almeno un decennio.

37) introduzione del Pin del cittadino: dobbiamo garantire a tutti l’accesso a qualsiasi servizio pubblico attraverso un'unica identità digitale

Idea, questa del Pin unico, irrinunciabile, necessaria, da sostenere a spada tratta, sempre e comunque.

Un’unica annotazione: peccato che l’idea risalga al più volte citato Bassanini, con la carta di identità elettronica, pensata già nel 2000.

38) trasparenza nell’uso delle risorse pubbliche: il sistema Siope diventa “open data”

La focalizzazione della trasparenza in particolare sul sistema Siope è un’idea da sostenere e difendere.

Il Siope contiene informazioni preziosissime sulla spesa, come si spende, chi spende, per quali categorie ed efficacia. In effetti è assurdo che non sia accessibile e trasparente a tutti.

39) unificazione e standardizzazione della modulistica in materia di edilizia ed ambiente

Idea anche questa condivisibile. E’ un rimbrotto indiretto alle amministrazioni locali, che non hanno mai saputo coordinarsi. Nonché il segno ulteriore della tendenza alla ricentralizzazione dell’attività amministrativa, segno che il “federalismo” all’italiana ha funzionato poco e male.

40) concreta attuazione del sistema della fatturazione elettronica per tutte le amministrazioni

Si tratta di effettuare un investimento importante nelle risorse informatiche. Le ultime piattaforme, l’AvcPass piuttosto che la piattaforma per la certificazione dei crediti, sono oltre la soglia della farraginosità e non dialogano con i sistemi di protocollo e documentali delle PA.

La piena operatività della fatturazione elettronica, utilissima e necessaria per tracciare la spesa e la puntualità dei pagamenti, richiede uno sforzo finanziario notevole, in assenza del quale resterà a lungo pia intenzione.

41) unificazione e interoperabilità delle banche dati (es. società partecipate)

Anche in questo caso, l’intento, che non può non condividersi, deve essere accompagnato da investimenti poderosi, pena fallimento.

42) dematerializzazione dei documenti amministrativi e loro pubblicazione in formato aperto

La dematerializzazione dei documenti è molto vicina. Tante amministrazioni sono dotate degli strumenti per la piena digitalizzazione.

Questa voce della riforma non deve riguardare tanto la PA, allora, quanto i cittadini. Se non si portano tutti verso il pieno utilizzo della Pec o della firma digitale, oppure se non si trovano altri modi semplici per l’interscambio solo informatico di documenti e informazioni, insomma se solo uno dei due soggetti da mettere in comunicazione usa appieno il sistema telematico, l’intento non potrà essere ottenuto[1].

43) accelerazione della riforma fiscale e delle relative misure di semplificazione

Ottima idea, ma occorre capire i contenuti.

44) obbligo di trasparenza da parte dei sindacati: ogni spesa online

Dulcis in fundo. Cosa c’entrano i sindacati con la riforma della PA?

 

 

[1] Sul tema e, in generale, su alcuni aspetti della riforma della “burocrazia” si consenta di rinviare a http://www.leoniblog.it/2014/03/18/il-dito-della-burocrazia-la-luna-delle-norme/.

2 commenti: