domenica 8 aprile 2018

Riforme della PA: di “epocale” solo i fallimenti



I dati sull’esito della riforma delle società partecipate attestano la cruda realtà: di “epocale” delle riforme della PA attivate nell’ultimo quinquennio, ci sono solo i flop.

Il censimento effettuato dall’Anpal sul personale delle società partecipate che, in virtù del processo di riduzione impostato dalla riforma Madia, avrebbe dovuto essere posto in mobilità è un indicatore del fallimento anche di questa riforma. Infatti, sarebbero esuberanti 563 dipendenti su un totale di circa 270.000.
E’ il chiaro segnale che la ricognizione effettuata dalle amministrazioni locali sulle società da liquidare è estremamente sommaria: non si arriverà mai all’obiettivo da sempre enunciato della riduzione del numero delle partecipate “da 8.000 a 1.000”, come, del resto, facilmente vaticinato.
Si tratta dell’ennesimo fallimento della serie incredibile prodotta nella scorsa legislatura. La “madre” di tutte le riforme disasrtrose della PA o, comunque, dell’assetto ordinamentale, come è noto è quella delle province. Sciaguratamente avviata nell’aprile del 2014 ancora dopo 4 anni non si è nemmeno definitivamente assestata, anche perché incautamente finalizzata, per espressa enunciazione (incostituzionale) della legge Delrio ad anticipare gli effetti di una riforma della Costituzione mai entrata in vigore. Risultato? Da 4 anni leggi speciali consentono alle province di approvare bilanci solo annuali e non triennali, e pongono toppe al vero e proprio scippo di 3 miliardi, che non sono consistiti in tagli di spesa e di tasse, ma in un prelievo forzoso da parte dello Stato di entrate che continuano ad essere acquisite dalle province, ma debbono da esse essere devolute al bilancio statale, invece che utilizzate per i fini gestionali di quegli enti.
Il disastro istituzionale, organizzativo, finanziario e amministrativo delle province ha inciso non poco su altri ambiti. Per esempio, la riforma del lavoro, il Jobs Act. Osservazione unanime è che la riforma risulti carente dal lato delle “politiche attive”, cioè dei sistemi di aiuto più o meno intensivo ai disoccupati nella transizione tra un lavoro e l’altro. Il tutto, dovuto oltre che alla mancanza di risorse e strumenti, anche all’avvio della riforma del lavoro mentre si smantellavano gli uffici per il lavoro operanti proprio nelle province.
La cosiddetta “buona scuola” è un’altra Waterloo organizzativa. La complessiva riforma del lavoro pubblico, composta dai decreti legislativi 74/2015 e 75/2015 risulta poco più di una manutenzione della riforma-Brunetta finalizzata ad eliminarne alcuni “spigoli” (in particolare le fasce di valutazione), ma è una montagna che ha partorito il topolino del rinnovo del contratto collettivo di lavoro delle funzioni centrali (le amministrazioni statali), che la Corte dei conti ha definito deludente.
Un capitolo a parte meriterebbe il codice dei contratti, forse, con la riforma delle province, la rappresentazione maggiormente plastica degli esiti fallimentari delle riforme di questi anni. La disciplina degli appalti è divenuta ancora più complessa e farraginosa di prima, continuamente soggetta ad inciampi giurisprudenziali e resa frammentaria dalla rinuncia ad un blocco unico di norme (legge e regolamento di attuazione), sostituita da decine e decine (oltre 50) di norme attuative tra decreti ministeriali e linee guida dell’Anac, molte delle quali ancora non emanate dopo 2 anni, ma, in ogni caso, incomplete, oscure, soggette a continui aggiustamenti, per nulla in grado di fornire interpretazioni e modalità applicative univoche.
Tutte queste riforme scontano un vizio di fondo: il tentativo di portare in un apparato centrale il governo ed il presidio delle procedure.
E’ un tratto comune: la riforma degli appalti punta a ridurre le stazioni appaltanti “da 30.000 a 30” (ovviamente senza riuscirvi e creando enormi complicazioni); le società si dovrebbero ridurre di 8 volte sotto una regìa centrale fallimentare; il personale pubblico dovrebbe essere selezionato sulla base di concorsi unici a livello statale e ricondotti un unico sistema di programmazione e censimento.
Idee in astratto valide ed utili, per la loro idoneità a contrastare la corruzione e le inefficienze, mediante il metodo delle economie di scala.
Peccato che alle buone intenzioni non abbia fatto seguito la necessaria organizzazione. La dispersione delle regole in miriadi di fonti di per sé è esattamente inconciliabile con le esigenze di accentramento. Inoltre – altra riforma fallita – manca un sistema informativo unico, valido su tutto il territorio di gestione e scambio dati: il Pin unico è una chimera, lo Spid è utile ancora per pochissimi servizi, l’anagrafe unica informatizzata è rimasta un progetto, le banche dati Inps non parlano praticamente con nessun’altra banca dati pubblica, non esiste uno standard per la gestione telematica degli appalti, la banca dati dei requisiti delle imprese è prigioniera dell’antiquato sistema AvCpass.
Né, comunque, di per sé la centralizzazione porta necessariamente a benefici sulla lotta alla corruzione, sulla spesa e sull’organizzazione.
La centralizzazione degli appalti e l’esaltazione della Consip come punto unico per gli acquisti di beni e servizi sono stati propagandati, sin dai tempi del Cottarelli commissario della spending review come la panacea. Si è visto, però, che la Consip, concentrando appalti di immenso valore, è tutt’altro che un fortino inespugnabile da corruttori e corrotti.
Inoltre, sulla capacità della centrale (ma di tutte le centrali) acquisti, v’è seriamente da dubitare. La spesa complessiva per beni e servizi dello Stato è sempre in costante aumento. Inoltre, la Consip non garantisce affatto prezzi davvero inferiori.
Ne è riprova la sentenza del Consiglio di stato, Sezione V, 28 marzo 2018, n. 1937. I giudici di Palazzo Spada hanno considerato legittima la scelta del Mibac di non avvalersi di una convenzione Consip in corso per servizi relativi alla gestione integrata della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, decidendo di attivare una procedura in autonomia sulla base di una maggiore convenienza economica della procedura.
La sentenza mette a nudo quanto una visione acritica e radicale della funzione delle centrali di committenza (visione trasfusa, purtroppo, nel codice dei contratti) nega: la funzione delle centrali di committenza o dei soggetti aggregatori, come la Consip, non deve essere quella di creare dei colli di bottiglia, nei quali convogliare forzatamente l’attività delle pubbliche amministrazioni, bensì solo ed esclusivamente un supporto. Di due tipi: o un supporto di tipo gestionale, qualora un’amministrazione decida di affidare alla centrale tutto o parte del processo di acquisto (dalla progettazione alla gestione, oppure solo la gara, per esempio); oppure, un supporto economico: i prezzi dei contratti o delle convenzioni aggiudicati dalle centrali di committenza dovrebbero essere lo standard, il riferimento al quale appoggiarsi per attivare gare d’appalto autonome che li utilizzino come base di gara, per evitare il fenomeno famoso delle siringhe che in Calabria costerebbero tre volte quanto costino in Lombardia.
La farraginosità ed il fallimento delle riforme, per altro, si riscontra anche nelle conseguenze che esse comportano a livello interpretativo. Il Consiglio di stato ha dato vita ad una pronuncia di puro buon senso (oltre che di poco eccepibile rigore giuridico), che appare, tuttavia, in antitesi con la visione, invece, rigoristica e radicale della Corte dei conti. In più pareri, infatti, la magistratura contabile ha ritenuto illegittimo (e quindi potenzialmente produttivo di danno all’erario) per i comuni approvvigionarsi di carburante presso il vicino distributore, invece di quello individuato dalle convenzioni Consip, magari a chilometri e chilometri di distanza, comportante maggiori costi economici ed evidenti inefficienze organizzative.
Dunque, la possibilità di procedere in autonomia per gli appalti, riconosciuta legittima dalla magistratura amministrativa, sarebbe un illecito per quella contabile.
Una Babele giuridica ed organizzativa che le riforme fallimentari hanno creato e accresciuto ed alla quale è imprescindibile ed urgente porre un rimedio definitivo.

2 commenti:

  1. Le centrali di committenza, in cui spesso si centralizza e si affina anche la corruzione in modo meticoloso e border line, fanno gola ai privati, e per questo giornali e professionisti dell' "anticorruzione" (o dovremmo dire della corruzione) spingono in tal senso. Ma la ragionevolezza ormai è rara a trovarsi e difficilmente si cambierà strada.

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  2. La pessima scuola è stata un modo per dare soldi inutili alle università con ulteriori crediti da acquisire, favorire presidi (dirigenti scolastici) spesso piccoli dittatori, creare un girone infernale, per i meritevoli, per diventare di ruolo. Insomma pensando a tutti meno che a far crescere scuola e cultura. Una dimostrazione pratica di come degli incapaci possano fare anche i ministri. L'esito elettorale non è stato dovuto a populismi o meriti dei partiti vincitori, ma a valutazioni oggettive e non smentibili dell'incapacita degli uscenti (che tra l'altro avevano dalla loro parte gli stessi intellettuali e giornalisti sempre presenti da 20 anni che si sono smarcati solo negli ultimi mesi).

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