domenica 14 gennaio 2018

Disoccupazione, scoperta la causa: sono i giovani che “non vogliono lavorare”


Con periodicità circa bisettimanale, sulla stampa si pubblicano articoli che rilanciano grida disperate di allarme degli imprenditori che non riescono a trovare le figure professionali che, pure, si dicono pronti ad assumere a qualsiasi costo e condizione. Articoli, spesso, corroborati da dati e numeri delle associazioni di categoria e delle camere di commercio, a conferma del “mismatch” tra domanda e offerta di lavoro.
Il 14 gennaio 2018 è toccato al Corriere della sera pubblicare un articolo della serie, a firma di Dario di Vico, dal titolo che già dice tutto: “Il paradosso del lavoro che c`è Mancano i profili più richiesti Dai tecnici specializzati agli addetti al turismo Quando il lavoro c`è, mancano i profili giusti”.

E giù la sequenza di lamentazioni: in Sardegna non si trovano sufficienti tecnici specializzati addetti al turismo. In Emilia Romagna mancano tecnici ed operai specializzati. In Friuli, poi, non ne parliamo: le aziende dell’indotto Ikea sono disponibili a centinaia di assunzioni, ma spesso debbono provare a reclutare giovani provenienti dal sud, senza nemmeno coprire tutti i posti.
Giovani, abbiamo detto. Ed ecco il messaggio nemmeno troppo subliminale dell’articolo: “Ci sono mestieri che i giovani non vogliono più fare”.
Trovato, dunque, il problema. Non è, dunque, che vi sia una crisi economica tale da aver inciso gravemente sulla pelle di tutti, imprenditori e lavoratori. No. Gli imprenditori in qualche modo se la sono cavata, anche soprattutto, ora, grazie ai miracoli di Industria 4.0 (anche se ancora gli investimenti non sono stati completati, ma evidentemente il programma è magico).
Dunque, se il mercato del lavoro chiede qualifiche ma non si trovano, la colpa a questo punto di chi è? Della crisi economica? No, è chiaro. Delle ancora sussistenti difficoltà delle imprese che non esportano? No, evidente. Della circostanza che i lavori proposti siano per la gran parte a tempo determinato e parziale, con paghe troppo basse? Ci mancherebbe. Dell’imperversare dei tirocini, trasformati ormai in una “pre-prova”, di mesi, nella quale i lavoratori sono chiamati a vere e proprie mansioni lavorative, compensati con una limitatissima borsa-lavoro? No, ovvio. Del Jobs Act che con tutta evidenza non è riuscito ad incidere su queste dinamiche? Assolutamente no.
La colpa è dei giovani. Il Corriere è riuscito a scoprire la perfida trama ordita da loro. Pur di dimostrare alle statistiche che il tasso di occupazione, specie per i giovani, in Italia è ancora il terz’ultimo d’Europa, tutti i giovani italiani, attraverso Whatsapp hanno creato un gruppo: “Boicottiamo il Jobs Act”.
Di conseguenza, si sono decisi in modo fermo di restare assolutamente disoccupati e, quindi, di rifiutare tutte i milioni di fantastiliardi di possibilità di lavoro, così che l’Italia, invece di essere il Bengodi che potrebbe essere, resta ancora al palo nel mercato del lavoro.
Ma, attenzione. La colpa è anche ovviamente delle istituzioni pubbliche e della scuola. Pensiamo un po’: l’articolo ci informa che in Friuli Venezia Giulia gli imprenditori hanno scoperto che “Questi giovani hanno bisogno di un'ulteriore formazione professionale in azienda”! Incredibile, no? I giovani escono dalla scuola o dalla formazione superiore o dalle università e, tuttavia, non conoscono nel dettaglio mansioni e specifici sistemi organizzativi di lavoro di ogni singola impresa. Non si fa. Spiegano ancora gli imprenditori friulani: “Servono infatti figure specifiche come lo squadrabordista che conduce le macchine del legno o pressopiegatori che sanno lavorare la lamiera e l'inox e i montatori meccanici”. Comprensibile lo sdegno di chiunque, nel constatare che a scuola non dedicano le giuste e necessarie ore alla materia dello squadrabordismo e della pressopiegatura, sì da costringere, poi, le imprese a spiegare ai lavoratori che assumono quale tipo di lavoro i dipendenti debbono fare: una fatica che non è giusto imporre agli imprenditori.
Per altro, i giovani, sempre nella loro perfidia, vanno troppo al liceo e non si iscrivono agli istituti tecnici. Furbi, questi giovani; non sia mai che studino l’esegesi dello squadrabordismo, il ruolo dello squadrabordista nella rivoluzione francese e tecniche operative di squadrabordatura e che, poi, siano costretti ad andare a lavorare!
E dire, ci informa sempre l’articolo, che in Friuli avrebbero perfino trovato la soluzione per avvicinare i giovani al lavoro: “con la Regione abbiamo attivato un progetto per formare 50 giovani con un tirocinio di sei mesi per coprire il disallineamento tra profili richiesti e preparazione”. Come volevasi dimostrare. Tirocini in accordo con la regione e, quindi, in tutto o in parte finanziati da risorse pubbliche, della durata di sei mesi, appunto per la pre-prova di cui si parlava prima.
Fuori dall’ironia, esattamente il tipo di lamentazioni e di iniziative che racconta l’articolo sono la diagnosi non della volontà dei giovani di non lavorare, ma dell’inadeguatezza attrattiva di un sistema che ancora non sa come uscire dalla crisi e quindi propone in modo disordinato prospettive lavorative che richiedono specializzazione, ma con lavori di poche ore, di pochi mesi e a bassa retribuzione.
Con onestà intellettuale Di Vico ha dato anche voce a chi, come l’esperto di lavoro e statistica Bruno Anastasia, sa offrire una visione assai più articolata e profonda rispetto al messaggio “sono i giovani che non vogliono lavorare”. Anastasia osserva: “Siamo sicuri che i giovani vogliano sottrarsi al lavoro manuale? Non siamo davanti a una generazione che si laurea al 100%, anzi. Poi il lavoro di cui stiamo parlando è assai diverso dal passato, potremmo definirlo semi-manuale”.
Invece di partire da questa domanda e di affrontare e risolvere il problema delle condizioni di lavoro offerte (stipendio, logistica, ore lavorate, durata dei contratti), lanciare il messaggio che sono i giovani a non voler cercare ed accettare lavoro serve solo ai titoli bi-settimanali sui giornali, a raccogliere sfoghi degli imprenditori, ma non muove di un centimetro la situazione.

1 commento:

  1. Il problema fondamentale è il sistema dell'informazione malato, che ha ormai uguale credibilità dei fumetti di Topolino. Altro che fake news su internet.

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