sabato 28 ottobre 2017

Il capo di gabinetto dei sindaci: figura inutile che mina le regole gestionali


Il capo di gabinetto del comune di Torino, dimessosi dalla carica dopo essere stato intercettato in una telefonata nella quale esortava il vertice dei trasposti pubblici della città a cancellare la sanzione ad un suo amico che aveva viaggiato senza biglietto, si era già segnalato per ingerenze nella gestione.

Infatti, nella questione dell’accusa per falso ideologico relativo al bilancio del comune di Torino, i 5 milioni dovuti dal comune alla società Ream sono stati cancellati dal bilancio 2017 su “ordine” (così informa Il Fatto Quotidiano on line del 17 ottobre 2017) rivolto appunto dal capo di gabinetto ai dirigenti competenti.
Registriamo dunque i seguenti due elementi di cronaca:
1)                 il capo di gabinetto del comune di Torino si ingerisce nell’operatività ed “ordina” di cancellare dal bilancio di previsione un’ingentissima somma di denaro;
2)                 il capo di gabinetto del comune di Torino si ingerisce nell’operatività, ed “invita” l’amministratore delegato della Gtt a cancellare la multa ad un amico.
Non sappiano quali altri atti di concreta ed evidente ingerenza nella gestione siano stati compiuti dal capo di gabinetto del comune di Torino e dagli altri capi di gabinetto dei sindaci. L’impressione è che dietro a quelli, piuttosto significativi, emersi agli onori della cronaca, moltissimi altri ve ne siano, ma non assurti a “notizia” di giornale.
La questione è che la figura del capo di gabinetto è del tutto inutile, ma rischia fortemente di divenire molto dannosa, perché concepita e vissuta dai protagonisti (sindaci che nominano, capi di gabinetto nominati) come un sistema per violare il principio di separazione tra funzioni politico-amministrative e funzioni gestionali, posto a chiare lettere sia dagli articoli 4 e 5 del d.lgs 165/2001, sia dagli articoli 48 e 107 del d.lgs 267/2000.
Violare il principio di separazione è il primo tra i rischi di “corruzione amministrativa” (che non coincide necessariamente col reato di corruzione, ma discende da conflitti di interesse tali da inquinare le scelte operative): la gestione operativa, infatti, invece di svolgersi allo scopo di attuare gli indirizzi politici nel rispetto dell’interesse generale, con imparzialità, finisce per essere strumento di discriminazione tra chi risulta “amico” di una certa sigla politica, o per forzare la mano su scelte operative, doverose ma sgradite dalla politica, che vengono ostacolate, osteggiate o forzate, a danno dell’ente, della collettività e creando contrasti enormi con la struttura amministrativa.
Eppure, la normativa, al di là delle regole anticorruzione che andrebbero rispettate con scrupolo, contiene ben due misure per evitare che l’azione di un capo di gabinetto possa svolgersi secondo il paradigma certamente non esemplare di Torino.
La prima misura consiste nella circostanza che il capo di gabinetto non è in alcun modo previsto dall’ordinamento locale, d.lgs 267/2000.
La seconda misura consiste nel fatto che laddove, applicando l’articolo 90 del d.lgs 267/2000 si ritenga comunque possibile attivare detta figura, lo stesso articolo 90, al comma 3-bis, ne circoscrive in modo chiarissimo i confini operativi: “resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale”, per qualsiasi soggetto, qualunque sia la sua qualificazione (capo di gabinetto o altro) che sia incaricato negli staff politici.
Appare abbastanza chiaro che gli atti attribuiti dalla cronaca all’operato del capo di gabinetto dimessosi siano in chiara violazione del divieto di attività gestionale; tra essi, al di là del poco simpatico intervento per ottenere il favore nei confronti dell’amico sorpreso a non pagare i biglietti di viaggio, appare particolarmente grave l’ “ordine” impartito agli uffici per ottenere la cancellazione dal bilancio di previsione della somma di 5 milioni di euro.
Le riforme degli ultimi 25 anni vogliono che gli organi di governo svolgano il difficile e delicato “mestiere” che le regole della rappresentanza pubblica democratica attribuiscono loro: programmare, delineare indirizzi politici, scegliere le priorità, reperire le risorse e destinarle. Per ottenere ciò, le riforme hanno sottratto alla politica la gestione concreta, che possa interessarsi del biglietto non pagato, della somma da iscrivere nel bilancio o anche del permesso di costruire, della concessione, del divieto e del contributo da erogare. Questi sono atti operativi che non devono avere una colorazione politica: il permesso di costruire spetta se il progetto è rispettoso della programmazione urbanistica; non può spettare, anche se il progettista è “amico” o il costruttore un “grande elettore” laddove l’opera sia priva di autorizzazioni, criteri o insista in zone a rischio.
Il capo di gabinetto non può e non deve essere la leva (spesso si utilizza a questo scopo anche l’altra inutile figura del direttore generale o “city manager) per violare la divisione tra programmazione politica e gestione e, quindi, adottare atti come un “ordine” che un sindaco non può legittimamente emanare, fingendo che la provenienza da una figura “tecnica”, invece che politica, rimedi al vulnus della violazione del principio di divisione.
La legge espressamente, come visto, vieta ai componenti dello staff politico l’ingerenza nella gestione per una ragione molto semplice: la diretta connessione del componente dello staff politico, nominato per appartenenza politica (nel caso di Torino il capo di gabinetto era anche il “king maker” del sindaco), lo rendono un’espressione diretta della politica, come tale da escludere dalla gestione diretta.
E’ una conclusione logica e disposta in modo chiarissimo dalla legge, ma troppo spesso violata. E il prezzo c’è: bilanci che perdono i pezzi, le multe che vengono cancellate agli amici.

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