sabato 22 aprile 2017

Riforma del procedimento disciplinare. Talvolta è meglio copiare che insistere negli errori


Governo e Parlamento in questa legislatura non hanno brillato particolarmente per capacità di elaborare leggi e decreti legislativi pienamente conformi alla Costituzione o, comunque, tali da superare senza problemi il vaglio degli organi consultivi.

A partire dalla fine ingloriosa della riforma della dirigenza, per passare attraverso le necessarie modifiche al testo unico sulle società partecipate, per transitare sulla legge elettorale incostituzionale e giungere anche alle controverse questioni legate al codice dei contratti, sostanzialmente non vi è stata una sola delle tanto acclamate “riforme” priva di rilievi mossi dagli organi consultivi, in primis il Consiglio di stato, o non caduta sotto gli strali delle giurisdizioni.
Sta di fatto, tuttavia, che in modo sicuramente poco prudente il Governo in particolare ha adottato un atteggiamento “decisionista”, volto a non tenere conto praticamente mai dei pareri di Palazzo Spada o della Conferenza Unificata o delle Commissioni Parlamentari. Finendo per incappare in incagli oggettivamente imperdonabili o in palesi atteggiamenti contraddittori, come l’abolizione dell’articolo 211, comma 2, del codice dei contratti, letta sul piano della dietrologia politica come un attacco indiretto all’ex premier, perpetrato mediante il depotenziamento dell’Anac.
Probabilmente, questa chiave di lettura ha più di qualcosa di fondato, visto che è in atto il tentativo di addossare al Consiglio di stato la responsabilità di detta abolizione, come dimostra l’articolo pubblicato su La Repubblica del 22 aprile “Intervista a Alessandro Pajno - "Il Consiglio di Stato mai ha chiesto di cancellare la norma sugli appalti"”, nella quale si chiede conto al presidente del Consiglio di spada appunto dell’ispirazione dell’abolizione della norma, mentre il presidente spiega che Palazzo Spada si è limitato a chiedere – per ben tre volte – non la sua abolizione, bensì la sua correzione, necessitata da evidenti problemi di tenuta giuridica.
E’ un po’ curioso che, per un verso, i pareri del Consiglio di stato risultino costantemente superati come non esistessero; è vero che non sono vincolanti, ma altrettanto vero è che Palazzo Spada fornisce sempre, come doveroso, spunti estremamente interessati, che se ascoltati eviterebbero cortocircuiti politico giuridici come quello scatenatosi sull’Anac; e che, per altro verso, poi però si voglia reperire nel Consiglio di stato il capro espiatorio.
Sarebbe necessario che il Legislatore (inteso come complesso dei vari soggetti che tra Governo e Parlamento entrano a far parte del processo di formazione delle leggi) agisse con maggiori umiltà e capacità di ascolto.
Allo scopo, basterebbe evitare di andare a cercare troppi spunti di originalità creativa del diritto, che alla fine, pur essendo quelli che danno spazio alle ospitate in TV, sono la causa principale di sentenze di incostituzionalità o di interventi demolitori della magistratura, quando non di contenziosi infiniti, con spaccature interpretative insanabili, di fronte alle quali poi l’operatore concreto in prima linea non sa più come agire.
Un altro esempio di potenziale cortocircuito è dato dal parere 422/2017 del Consiglio di stato sullo schema di decreto legislativo attuativo della legge 124/2015 di riforma del d.lgs 165/2001, per quanto riguarda specificamente la riforma del procedimento disciplinare.
La questione sollevata con particolare attenzione da Palazzo Spada riguarda l’eliminazione del principio di perentorietà dei termini del procedimento disciplinare, che discenderebbe dal nuovo comma 9-ter dell’articolo 55-bis del d.lgs 165/2001, il cui testo, se approvato definitivamente nell’attuale versione dello schema, sarebbe: “la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare, previste dagli articoli da 55 a 55-quater del d. lgs. n. 165 del 2011, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività”.
Oggettivamente, non pare occorra una particolare genialità e competenza in giurisprudenza, bastando anche una limitata esperienza universitaria, per comprendere che simile disposizione è estremamente pericolosa e fonte certa di un contenzioso infinito, perché:
a) implica il rischio di procedimenti disciplinari senza mai fine;
b) lede certamente il diritto alla difesa, come maldestramente ammette il testo stesso della norma, nell’avvertire che il superamento dei termini, trasformati da perentori ad ordinatori, appunto non deve compromettere detto diritto.
E’ evidente a chiunque che la riforma così come proposta risulti lesiva del principio del “giusto procedimento” desunto dalla Costituzione ed enunciato in particolare nella legge 241/1990, ove si afferma “la tutela del profilo partecipativo al procedimento (contraddittorio), dell’obbligo di motivazione del provvedimento, della conclusione entro termini certi, della conoscenza degli atti della pubblica amministrazione, della responsabilità dei funzionari e dei dipendenti pubblici” (S. Mangiameli, “Giusto procedimento” e “giusto processo”. Considerazioni sulla giurisprudenza amministrativa tra il modello dello Stato di polizia e quello dello Stato di diritto, in http://archivio.rivistaaic.it/dottrina/garanzie/Mangiameli01.pdf).
D’altra parte, la necessità di termini certi nei procedimenti giurisdizionali è espressamente affermata dall’articolo 111 della Costituzione ed appare piuttosto complicato non concordare sulla circostanza che il disposto di tale articolo della Carta non enunci un principio direttamente esteso a qualsiasi procedura, sebbene non giurisdizionale, caratterizzata da contraddittorio e dalla presenza di un ruolo di “incolpato”, come avviene esattamente nel procedimento disciplinare.
Allora, immaginare di scrivere una norma che elimini la certezza dei termini procedimentali all’evidente scopo di fornire un segnale “mediatico” da parte del Governo contro i “furbetti” di varia natura, è certamente un salto nel buio, che espone con elevatissimo grado di probabilità la norma stessa ad un contenzioso infinita.
Basterebbe che a Palazzo Vidoni (o in qualsiasi altra sede di “produzione” delle norme) in certi casi, quando è opportuno se non necessario, si limitassero davvero a copiare qua ne là qualche tesi di laurea o approfondimento giuridico, anche senza citazioni, o quanto meno accettassero le illuminate indicazioni del Consiglio di stato, dismettendo i panni degli “innovatori” a qualunque costo (e, spesso, all’amatriciana).
Nel caso di specie, il Consiglio di stato più chiaro non potrebbe essere: “la previsione de qua non appare in sintonia con la legge delega che all’art. 17, comma 1, lett. s) («introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi e di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare»), giacché l’eliminazione totale di termini perentori rischia di mettere a repentaglio proprio il perseguimento di tali obiettivi, procrastinando sine die l’avvio e la conclusione del procedimento disciplinare ed esponendo il dipendente al rischio di un esercizio dell’azione disciplinare arbitrario o addirittura ritorsivo, anche a lunga distanza di tempo dai fatti. L’integrale eliminazione del principio della perentorietà dei termini del procedimento disciplinare (già messo in crisi dalla ricordata introduzione, ad opera del d. lgs. n. 116 del 2016, nell’art. 55-quater del d. lgs. n. 165 del 2011 del nuovo comma 3-ter, ultimo periodo) sembra aprire un vulnus nel principio di legalità dell’azione disciplinare e appare in contraddizione con la previsione di cui al comma 1, dell’art. 55, del d. lgs. n. 165 del 2001, secondo cui «le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all’articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all’articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2». La giurisprudenza, proprio quanto alla prospettata natura ordinatoria e non più perentoria dei termini che disciplinano l’esercizio dell’azione disciplinare nelle sue diverse fasi, ha sottolineato che tutte le disposizioni normative e contrattuali in questa materia «perseguono il fine evidente di prevedere termini certi finalizzati a garantire la tempestività dell’azione disciplinare, che nell’impiego pubblico deve essere immediata nel suo inizio e rapida nella sua conclusione, posto che la tempestività è finalizzata non solo a tutelare la effettività del diritto di difesa dell’incolpato, ma anche il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione» (Cass., sez. L, 15 settembre 2016, n. 18128)”.
Vedremo se anche in questo caso il Governo ingaggerà una “prova di forza” con l’organo consultivo, salvo accorgersi in ritardo di effetti nefasti della scelta di andare comunque dritto per la propria strada, magari poi cercando di reperire le responsabilità delle proprie scelte in sfere soggettive altrui.

1 commento:

  1. Cosa significa che «sono considerati perentori il termine per la contestazione disciplinare e il termine per la conclusione del provvedimento disciplinare» (art 55bis comma 9-ter dell'attuale TUPI), se subito prima c'è scritto che «la violazione dei termini, fermo restando la responsabilità del dipendente a cui è imputabile, non determina la decadenza dell'azione disciplinare»? Quindi il perentorio come va inteso? grazie

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