sabato 11 marzo 2017

Appalti: ponti che crollano, tra controlli ipertrofici inefficienti



Cosa hanno in comune un acquisto di pc e stampanti da 900 euro, un ponte che crolla e l’appalto da 2,7 miliardi per il facility managenent, indetto dalla Consip?
Apparentemente nulla, data la profonda diversità dei fatti e dei presupposti che regolano le diverse fattispecie.

Però, valutando con maggiore attenzione le tre ipotesi, un filo conduttore si trova: è il codice dei contratti, ma, meglio ancora, la complessa normativa che regola gli appalti. Talmente complessa, da scatenare procedure di controllo per importi oggettivamente risibili, ma non riesce a garantire misure di sicurezza tali da non far cadere un viadotto in manutenzione, mentre non riesce a sventare con mezzi amministrativi tentativi di corruzione su appalti di importo talmente elevato che dovrebbe risultare ovvia e certa la loro enorme esposizione a tentativi di malaffare.
Il codice, d.lgs 50/2016, è stato acclamato dalla stampa generalista in particolare come la riforma che ad un tempo avrebbe rilanciato l’edilizia e gli investimenti, aumentato la sicurezza degli appalti e ridotto la corruzione.
E’ passato quasi un anno dal 19 aprile del 2016, ma gli effetti auspicati non si sono assolutamente visti. Il controcanto dei tanti commentatori e soprattutto operatori rispetto alle decantazioni della stampa generalista non era, purtroppo, privo di fondamento.
Del resto, come dimostrano anche le sorti del Jobs Act, non possono essere riforme dell’ordinamento a rilanciare l’economia. Come non si possono creare posti di lavoro e ricchezza per legge, è impossibile rilanciare l’edilizia per effetto di un codice dei contratti, se manca un presupposto fondamentale: disporre di denari, di capacità di spesa per investimenti. Disponibilità che, se non è chiaro è bene precisarlo, deve possedere lo Stato e la PA. Infatti, il d.lgs 50/2016 è il “codice degli appalti pubblici”, l’insieme delle regole, quindi, delle commesse pubbliche. Ma, se il bilancio dello Stato è stretto da 30 miliardi circa tra bonus come gli 80 euro e le decontribuzioni dedicate appunto al Jobs Act, da un debito di oltre 2 mila miliardi, da un rapporto deficit/pil oltre i limiti concessi da Bruxelles e da una spesa per interessi di 70 miliardi; se il bilancio dello Stato non consente da 8 anni di rinnovare nemmeno i contratti del pubblico impiego e la normativa impone forme sempre più astruse di spending review esattamente allo scopo di ridurre la spesa, appare ben difficile che qualsiasi riforma riesca davvero a rilanciare investimenti nel campo delle commesse pubbliche.
Al contempo, se la lotta alla corruzione resta comunque appannaggio vero delle sole indagini giudiziarie, quelle che hanno stanato le trame dietro al mega appalto Consip di facility management, nonostante un dilagare incontrollato di norme, codicilli e adempimenti formali della normativa anticorruzione, non può non risultare evidente che anche in questo campo il d.lgs 50/2016 è solo una sovrastruttura, che ha finito per andare oltre la doverosa funzione di regolazione dei modi con i quali la PA acquisisce le commesse, per divenire un roveto di spine di regole che arrovellano gli operatori, senza costrutto.
Accade, così, che avvenga il cortocircuito delle regole e dell’operatività, per una pipa di tabacco.
Un comune colpito dal recente terremoto, si è ritrovato senza sede perché dichiarata inagibile.
Per lavorare, dunque, non potendo accedere più agli uffici e, quindi, ai pc e alle stampanti necessari a trascrivere i provvedimenti, hanno deciso di comprarli. D’urgenza.
Quel comune, colpito dal sisma, ha ritenuto, allora, di ritrovarsi nella situazione di “somma urgenza” prevista dall’articolo 163 del codice dei contratti. Il cui comma 6 dispone: “Costituisce circostanza di somma urgenza, ai fini del presente articolo, anche il verificarsi degli eventi di cui all'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 24 febbraio 1992, n. 225”, cioè il verificarsi di calamità naturali. E un terremoto, indubbiamente, è una calamità naturale.
Il comma 6 dell’articolo 163 prosegue precisando che in tali circostanze le amministrazioni aggiudicatrici possono procedere all'affidamento di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture con le procedure previste nel presente articolo”.
Le procedure in argomento sono, nella sostanza, la possibilità di ordinare direttamente la commessa all’operatore economico, effettuando l’impegno della spesa correlata successivamente. Una deroga alle ordinarie procedure, proprio giustificata dall’urgenza.
Ma, c’è un ma. Nel Paese nel quale la riforma della contabilità pubblica è considerata una sua “semplificazione”, ma ha, invece, prodotto un proliferare incontrollato di “fondi” di varia natura e fatto redigere fiumi di “principi contabili” inestricabili e complicatissimi, portando al parossismo gli adempimenti anche in campo contabile, oltre che nel campo dell’anticorruzione, regolarizzare una spesa assunta in via d’urgenza, anche per un comune terremotato, anche per una spesa irrisoria, diventa un Everest burocratico.
Sì, perché l’assunto della normativa anticorruzione non è tanto scovare i comportamenti dei corruttori, quanto impedire ai dipendenti pubblici di farsi corrompere, partendo dal presupposto che sono loro, i dipendenti pubblici, la parte debole del sistema, della quale non ci si può fidare.
Nel caso di specie, quel comune ha acquistato due pc ed una stampante spendendo 900 euro in tutto.
Ai sensi del comma 9 dell’articolo 163 del codice dei contratti, però, qualora si acquistino beni come previsto dal comma 6 “per i quali non siano disponibili elenchi di prezzi definiti mediante l'utilizzo di prezzari ufficiali di riferimento, gli affidatari si impegnano a fornire i servizi e le forniture richiesti ad un prezzo provvisorio stabilito consensualmente tra le parti e ad accettare la determinazione definitiva del prezzo a seguito di apposita valutazione di congruità”.
Quel comune, evidentemente preso dallo scrupolo, ha ritenuto opportuno considerare la spesa (di 900 euro) non collegata a prezziari ufficiali di riferimento, che, in effetti, per forniture e servizi non esistono. Dunque, il responsabile del procedimento ha agito come dispone, nel prosieguo, il comma 9: ha comunicato il prezzo provvisorio, unitamente ai documenti esplicativi dell'affidamento, all'ANAC. Questa, come prevede la norme, entro i successivi 60 giorni si è mossa per rendere il proprio parere sulla congruità del prezzo.
Allo scopo, anche se la comunicazione del comune risale al gennaio 2017, l’Anac ha ritenuto di dover applicare la procedura indicata nel Comunicato del Presidente datato 15 febbraio e pubblicato il 3 marzo del 2017. Detto Comunicato prescrive che allo scopo di consentire all’Autorità di valutare, allo scopo di attivare la propria consulenza collaborativa sulla conguità del prezzo, l’ente deve indicare: “tutte le informazioni e gli elementi essenziali relativi all’acquisto effettuato che permettono di procedere alla valutazione di congruità del prezzo”. Infatti, in caso contrario “L'Autorità informa le amministrazioni qualora la comunicazione risulti incompleta. In tal caso, il termine di sessanta giorni previsto dall'articolo 163, comma 9, del d.lgs. n. 50/2016 decorre dal ricevimento delle informazioni che integrano la comunicazione”.
Dunque, l’Anac ha chiesto al comune terremotato marca, modello, caratteristiche tecniche e singoli prezzi unitari; marca, modello, caratteristiche tecniche e costo unitario degli switch acquistati; modalità di acquisto e di pagamento, indicando che non si tratta di spesa di natura economale, effettuato mediante il ricorso al servizio di cassa interno.
Il comune, terremotato, dovrà rispondere adeguatamente, per consentire all’Anac di esprimere il proprio parere “collaborativo” di congruità. Che, così collaborativo” evidentemente non è se l’articolo 163, comma 9, conclude disponendo che “Avverso la decisione dell'ANAC sono esperibili i normali rimedi di legge mediante ricorso ai competenti organi di giustizia amministrativa”: sembra evidente che la pronuncia dell’Anac ha natura provvedimentale e definitiva, tanto che se stabilisse un prezzo diverso ed inferiore l’ente che ha attivato l’acquisto di somma urgenza potrebbe ricorrere avverso la decisione dell’Anac solo rivolgendosi al giudice amministrativo.
Torniamo al caso di specie. Un funzionario del comune, dopo aver effettuato un acquisto di 900 euro (novecento euro) ha redatto la richiesta di parere all’Anac; questa, ha istruito la pratica ed un altro funzionario ha specificato di non poter esprimere il parere di congruità su una spesa di 900 euro (novecento euro), chiedendo le integrazioni viste prima; il funzionario comunale dovrà nuovamente istruire la pratica, fornendo all’Anac le integrazioni richieste; l’Anac riprenderà in mano gli atti e formulerà il parere di congruità. Sperando che sia favorevole: difficilmente, si immagina, il comune ricorrerebbe al Tar su valutazioni di congruità relative ad un acquisto di 900 euro, considerando che il solo contributo unificato ne costerebbe circa 750 di euro.
Ora, è chiaro che l’Anac, richiesta del parere, non poteva certo sottrarsi ad un dovere di ufficio di applicare le regole operative, anche se alcune di queste le ha elaborate l’Anac stessa successivamente al parere stesso.
Ma, la vicenda suscita alcune domande. Al di là della doverosità di agire da parte dell’Anac:
1) quanto costa complessivamente questa complessa istruttoria così articolata, tra spese del comune e spese dell’Anac?
2) qual è il rapporto tra le spese di istruttoria e il costo complessivo della fornitura, che, si ribadisce, è di 900 euro (novecento euro)?
3) nessuno, proprio nessuno, ha pensato, nel redigere il codice, ad introdurre una soglia sotto la quale attivare simili procedure, connesse per altro anche a situazioni drammatiche come un terremoto, per evitare defatiganti procedure per valori irrisori?
4) sono i 900 euro in questione, spesi da un comune terremotato per svolgere le funzioni amministrative minime, che determinano, in Italia, l’esplosione della spesa pubblica, l’insorgere di responsabilità erariali, il dilagare della corruzione?
Nel Paese che ha eliminato da un quarto di secolo ogni controllo preventivo di legittimità, dunque, accade l’ipertrofia dei controlli su una spesa bassissima, 900 euro (novecento euro), mentre negli stessi giorni in cui si lancia questa intricatissima procedura di controllo collaborativo sulla spesa del comune terremotato, si scopre che su un appalto da 2,7 miliardi (non 900 euro) nessun controllo anticorruzione ha minimamente funzionato, e si constata che i ponti cadono, i lavori pubblici uccidono, nonostante tutte le insistenze normative su sicurezza e qualità degli appalti.
Ora, non si vuole essere qui così ingenui da immaginare che chi vuol delinquere smetta e che i cantieri divengano effettivamente sicuri solo perché le norme prescrivono misure contro i delinquenti e per la sicurezza.
Certo è, però, che se le norme non sono in grado, almeno, di discernere quali sono i casi nei quali valga davvero la pena scatenare procedure burocratiche complesse e costose e provare una volta a semplificare sul serio il quadro, queste norme alla fine producono paradossi, come quello di trattare una spesa di 900 euro come fosse un affare di Stato.
Quando, per altro, era possibile prendere atto che nel caso di specie, quel comune avrebbe potuto acquistare quella stessa fornitura utilizzando l’articolo 63, comma 2, lettera c), del codice, che consente di acquisire in via d’urgenza mediante affidamento diretto qualsiasi lavoro, fornitura o servizio, anche per importi superiori alla soglia di 200.000 euro prevista dalla “somma urgenza”, che vanno oltre perfino la soglia comunitaria, senza che in quel caso sia richiesta alcuna valutazione di congruità, per quanto collaborativa, a nessuno. Con l’ulteriore paradosso, dunque, che nel caso di “somma urgenza” da terremoto, una spesa da 900 euro possa andare incontro all’iperburocrazia vista prima, mentre una spesa di 9 miliardi, se ricorre l’urgenza, potrebbe anche essere adottata in assenza di qualsiasi intervento di controllo di chiunque.
Il filo rosso, dunque, che unisce le tre vicende elencate all’inizio c’è: è un codice dei contratti che non ha nemmeno un anno di vita per il quale si prevede un “correttivo” volto a modificarne circa 120 articoli dei suoi 220 attualmente vigenti. Qualcosa non funziona.

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