domenica 5 gennaio 2014

#province Edilizia scolastica prima inefficienza del ddl Delrio

 Con gennaio riparte la folle corsa per l’approvazione del disegno di legge “svuota province” promosso dal Ministro Delrio, per quanto qualche patema la maggioranza dimostri di subirlo, considerando la maggioranza più stentata al Senato, le sue fibrillazioni e le opposizioni sempre più dure.

Il ddl Delrio è ormai riconosciutamene solo una “norma bandiera”, inutile e controproducente. Chi ha iniziato a leggerlo davvero, non può non cogliere quanto sia mal scritto e peggio concepito, quanta inefficienza e complicazioni comporta.

Una pietra di paragone dell’effetto devastante per la razionalità dell’organizzazione delle funzioni locali è dato dalla funzione connessa all’edilizia scolastica.

Essa è l’unica, tra le funzioni “non fondamentali” che, laddove il ddl dovesse essere approvato, passerà direttamente (occorre vedere quanto, invece, automaticamente) ai comuni.

Infatti, l’attuale articolo 15 della norma:

a)                  lascia, in tema di scuola, alle province la sola funzione “fondamentale” della “programmazione provinciale della rete scolastica, nel rispetto della programmazione regionale”;

b)                 attribuisce allo Stato e alle regioni il compito di determinare, ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione, a quali altri enti assegnare le funzioni “non fondamentali”, con proprie leggi;

c)                  dispone indirettamente, però, che l’edilizia scolastica transiti direttamente alla competenza dei comuni, nello stabilire che “la provincia può altresì, d'intesa con i comuni, provvedere alla gestione dell'edilizia scolastica con riferimento alle scuole secondarie di secondo grado”;

d)                 consente, come visto sopra, ai comuni di attivare intese con le province, ai fini della gestione dell’edilizia scolastica.

Scritto così, appare in fondo semplice. Ad analizzare bene ciò che dispone il ddl si riscontra la sua totale irrazionalità e sostanziale ingestibilità.

Una prima conseguenza concerne l’effetto della norma. Come già rilevato, appare evidente che l’inciso riguardante le specifiche intese tra province e comuni per gestire l’edilizia scolastica indica, indirettamente che il ddl Delrio, una volta entrato in vigore, espunge immediatamente l’edilizia scolastica stessa dalle competenze provinciali.

Tuttavia, nulla esclude che possa darsi credito, anche nell’operatività, alla tesi opposta, secondo la quale perché ciò in effetti avvenga, occorrerebbe comunque una legge che assegni espressamente tale funzione ai comuni, sostanzialmente uguale e contraria alla legge 23/1996. E già salta all’occhio che nemmeno a soli 18 anni di distanza da una prima legge di decentramento e razionalizzazione amministrativa, per effetto della quale gli edifici scolastici degli istituti superiori passarono dallo Stato e dai comuni alle province, si debba sostanzialmente tornare indietro; per altro, il tempo effettivo di attivazione della riforma del 1996 è inferiore, in quanto solo a partire dal 2000 si avviò concretamente il processo di trasferimento alle province dei beni patrimoniali e delle risorse finanziarie che lo Stato assegnava ai comuni.

In effetti, una delle carenze evidentissime del ddl Delrio è proprio la totale ed assoluta mancanza di qualsiasi disposizione che tratti il problema:

a)      del trasferimento patrimoniale;

b)      del trasferimento delle risorse finanziarie.

Il comma 6 dell’attuale testo dell’articolo 15 del ddl Delrio rinvia ad un Dpcm (che per semplificare si adotta “su proposta del Ministro dell'interno e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie, di concerto con i Ministri per la pubblica amministrazione e la semplificazione e dell'economia e delle finanze”) il compito di stabilire (sempre per semplificare), entro tre mesi da un accordo in Conferenza unificata, previa consultazione con le organizzazioni sindacali, che individui quali funzioni provinciali trasferire e a quali enti, previa (sempre e solo per semplificare) ulteriore intesa in sede di Conferenza unificata, i criteri generali necessari per individuare beni e risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative connesse all'esercizio delle funzioni che devono essere trasferite.

Ovviamente, perché i comuni subentrino nella gestione dell’edilizia scolastica, occorre necessariamente che le province in primo luogo trasferiscano patrimonialmente gli edifici scolastici. Come in un’assurda tela di Penelope, dovranno essere compiuti sostanzialmente atti uguali e contrari ai tantissimi, onerosi e defatiganti trasferimenti dei beni che dai comuni, nel 2000, transitarono alle province.

Solo una volta titolari dei beni patrimoniali, i comuni potranno attivarsi per gestirne l’edilizia, intendendosi i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, gli ampliamenti, le ristrutturazioni e le nuove costruzioni eventualmente necessarie.

Ma, l’aspetto patrimoniale, per altro estremamente complesso (gli edifici scolastici in tutta Italia sono oltre 5000, dunque si tratta di ripetere, senza ragione alcuna, un immane sforzo amministrativo, tipico dello scavare fosse per poi riempirle), è tutto sommato il meno delicato. La vera questione si gioca sulle risorse umane e finanziarie.

E’ evidente che i comuni si aspetteranno un rafforzamento dei propri uffici tecnici, con personale proveniente dalle province, adibito all’edilizia scolastica. Altrettanto evidente è che ciò non sarà né scontato, né semplice.

In media, in ogni provincia vi sono 12-15 comuni sul cui territorio risiedano gli edifici scolastici; ma, le province non hanno 12 o 15 squadre di progettisti, tecnici e manutentori. Il sistema viene gestito da un ente unico, la provincia, che dunque ottimizza le risorse, con un unico ufficio centralizzato, che svolge le attività di edilizia, per altro nell’ambito di una più ampia pianificazione delle opere pubbliche e, spesso, essendo anche adibito ad altre attività dei settori tecnici provinciali.

Sicchè, per un verso il numero dei dipendenti competenti a seguire l’edilizia scolastica si rivelerebbe insufficiente a rafforzare gli uffici dei comuni sedi degli edifici; per altro verso, eventualmente potrebbero transitare solo i dipendenti assegnati in via esclusiva ai settori dell’edilizia scolastica.

In sostanza, i comuni nella maggior parte dei casi resteranno totalmente a bocca asciutta: molto probabilmente solo pochissimi dipendenti potranno essere trasferiti. Peranto, per i comuni si evidenzieranno problemi di sostenibilità organizzativa non da poco.

Analoghi e ancor più gravi problemi riguarderanno le risorse finanziarie. Le province sono state costrette negli ultimi 5 anni a ridurre drasticamente le spese di investimento, proprio quelle necessarie per l’edilizia scolastica, sia a causa del sistema perverso indotto dal patto di stabilità, sia a causa dell’ancora più forte riduzione del fondo sperimentale di riequlibrio, subendo una diminuzione delle entrate di circa il 20% ed una riduzione delle spese per investimento di oltre il 40%.

Tirando le somme, dunque, i comuni non possono aspettarsi trasferimenti di risorse tali da coprire integralmente i fabbisogni connessi all’edilizia scolastica. Anche perché, il principio di unità dei bilanci e la programmazione triennale delle opere pubbliche non connettono le entrate provinciali ad un vincolo di destinazione agli edifici scolastici. Tutte le entrate finanziano tutte le spese, nei limiti – per quelle in conto capitale – consentiti dal patto di stabilità. Sicchè, ciascuna provincia utilizza l’insieme delle risorse, per poi programmare secondo propri ordini di priorità gli interventi da realizzare.

Non è, dunque, immaginabile, come da qualche parte si è visto e sentito, che ogni scuola “valga” finanziariamente un certo importo. Del resto, non tutte le scuole sono uguali: gli oneri edilizi sono diversissimi a seconda che si tratti di un istituto alberghiero o di un liceo classico, oppure di un edificio storico del 1700, invece che di una scuola appena costruita. Vi sarebbero, dunque, problemi di ripartizione delle risorse verso i comuni rilevantissimi, con la certezza, comunque, di non garantire l’integrale fabbisogno, una volta che ciascun comune dovrà fare da sé e da solo per gli interventi edilizi.

A questo punto, trascorsi certamente molti mesi a valutare oneri, procedure e modalità operative, per i comuni si porrà il problema dell’effettiva sostenibilità dell’acquisizione dell’edilizia scolastica, posto che risulti in ogni caso neutrale l’attivazione di spese ingenti in conto capitale, rispetto alle regole del patto di stabilità.

Le strade aperte dal ddl Delrio, sono, in conseguenza di questa impostazione del tutto sommaria e al limite del dilettantismo, tante, troppe.

Provincia per provincia, potrebbe darsi che alcuni comuni accertino di non poter sostenere o non ritenere in ogni caso opportuno gestire l’edilizia scolastica, dicendosi, dunque, disposti a sviluppare intese con le province, per attribuire loro questi compiti. Ma, altri comuni, invece, potrebbero decidere di tenere per sé le competenze.

Una situazione a macchia di leopardo, dalla comprensibilissima irrazionalità e problematicità. L’impostazione sul tema dell’edilizia scolastica contenuta nel ddl Delrio risulta ab origine viziata dalla separazione tra la funzione di programmazione della programmazione della rete dei servizi scolastici, dall’edilizia. E’ facile percepire per chiunque che programmare i servizi all’istruzione significa determinare quali indirizzi e quale dimensionamento gli istituti possono o non possono attivare. Tale competenza presuppone necessariamente la titolarità degli edifici, dal momento che la decisione di attivare un nuovo indirizzo tecnico, che richieda laboratori e si apra a nuove iscrizioni, implica la programmazione a medio termine di interventi edilizi connessi alle nuove modalità didattiche e alla crescita nel quinquennio della popolazione studentesca. Scindere, allora, programmazione da edilizia scolastica significa chiedere alle province di programmare, ma “in casa d’altri”, senza, cioè, disporre degli strumenti principalmente patrimoniali necessari allo scopo.

Le “intese” con i comuni potrebbero risolvere questa evidente incoerenza; per altro, alla Camera si è introdotta, come soluzione di compromesso, l’idea delle intese, poiché il testo iniziale del ddl Delrio intendeva totalmente sottrarre alle province l’edilizia scolastica.

Tuttavia, lasciare ad “intese” il disegno delle funzioni dell’edilizia significa, come già rilevato, affidarsi piuttosto al caso e la certezza di creare un sistema puntiforme, nel quale con poca logicità convivranno a fatica province e comuni nelle loro funzioni. Come se, per altro, la programmazione, vista sopra, non richieda anche una visione sovracomunale coerente, giacchè aprire nuovi indirizzi in un istituto in un certo territorio, significa influire moltissimo sulla crescita o decrescita degli allievi in altri territori. La frammentazione delle competenze non aiuterà sicuramente alla necessaria valutazione di insieme. Che, richiede, per altro, anche coerenza con la programmazione dei trasporti pubblici.

Le province sono titolari dei contratti di servizio con le società di trasporto pubblico e ne orientano orari e linee prevalentemente a servizio delle scuole superiori. Si comprende perfettamente che la titolarità dell’edilizia scolastica e, indirettamente, della programmazione (vista l’influenza dominante che la proprietà patrimoniale avrà su di essa) da parte dei comuni, finirà per fare delle aziende di trasporto servitrici di troppi padroni, molti dei quali, per altro, cioè i comuni, non avranno nemmeno la responsabilità economico-finanziaria della gestione delle medesime aziende, immaginando, dunque, di poter chiedere ed ottenere qualsiasi prestazione, per quanto non sostenibile sul piano aziendale.

Ma, il vero paradosso di questa vicenda è che, una volta completato il processo complicatissimo di acquisizione della funzione dell’edilizia da parte dei comuni, quelli che con le “intese” volessero rassegnarla alle province dovrebbero dare vita ad un defatigante percorso uguale e contrario, con altre carte, contratti, forme di titolarità degli edifici evidentemente precarie, spese, burocrazia al parossismo. Senza nemmeno avere la garanzia di un soggetto che in modo unitario possa gestire la funzione, perché certamente qualche comune, probabilmente i capoluogo, manterrà a sé alcuni edifici, considerati “strategici”.

Insomma, un sistema veramente irragionevole, oneroso, dispendioso, burocratico, contraddittorio, di immaginare la gestione futura dell’edilizia scolastica, per altro caratterizzato da tempi di azione che appaiono ben più lunghi di quelli che il Governo traccia per la definitiva abolizione delle province, avvenuta la quale anche le “intese” già sottoscritte ed operanti perderebbero efficacia, scopo e utilità, aprendo per l’ennesima volta la strada ad un subentro di altri enti nella gestione dell’edilizia scolastica.

Parallelamente, poi, si aprirebbe il problema della gestione degli appalti, in particolare per le manutenzioni. Le province, quale stazione appaltante univoca, riesce ad attivare global service per le manutenzioni e le utenze, utilizzando tutti i benefici delle economie di scala. Un’unica stazione appaltante assegna le gare, con importi sempre molto alti, a garanzia della concorrenza e dell’accesso agli appalti nel rispetto della disciplina richiesta anche dalla Ue.

La frammentazione dell’edilizia verso decine di comuni (l’Upi ha stimato che si passerebbe da 107 a circa 1600 stazioni appaltanti…) frantumerà certamente ogni principio di gestione unitaria e di economie di scala, aumenterà a dismisura il numero delle stazioni appaltanti e la tendenza a frazionare lavori e costi, per abbassare le soglie di gara, incidendo negativamente sulla concorrenza e sull’efficienza complessiva del sistema.

E non finisce qui. In assenza di una modifica espressa alla legge 23/1996 a chi resta la funzione di finanziare le spese generali degli istituti? Passerà anch’essa ai comuni? E chi dovrà provvedere agli arredi scolastici? Trattandosi di beni patrimoniali al servizio degli edifici, anche queste acquisizioni dovranno andare a carico dei comuni.

Ancora: il trasporto degli alunni disabili? Anche se si tratta di organizzare un servizio di trasporto, il d.lgs 112/1998 lo configura come un servizio attinente all’istruzione. Dopo anni impiegati dai comuni e dall’Anci, adendo Tar e magistrature varie, per passare la competenza ed i costi alle province, che se ne sono fatte carico senza che le regioni finanziassero nemmeno un centesimo, probabilmente se li ritroverebbero nuovamente sul groppone, con la conseguenza del difficoltoso subentro in appalti di estensione provinciale, che verrebbero frantumati, non si immagina con quale logica ed efficienza.

Trattandosi di una riforma dall’impatto mediatico rilevantissimo, queste semplici ed evidenti considerazioni non verranno tenute in nessun conto e si procederà verso l’approvazione del ddl Delrio nonostante la sua evidentissima inefficienza. Salvo, tra qualche anno, vedere i tanti giornalisti oggi esultanti per l’iniziativa del Governo, attivare scandalizzate inchieste sugli sprechi e le inefficienze del sistema locale dell’istruzione e non solo.

 

2 commenti: